Diego Cibelli parte da un luogo, la sua Napoli, quella di una realtà come Scampia, per raccontare dell’appartenenza come concetto fondante della sua pratica. Il vuoto va colmato, va popolato di emozioni e di storie. E l’arte ha gli strumenti per riempire quei vuoti, per dare voce. L’artista napoletano parte dalle prime metamorfosi, dall’eterogeneità e dalla sintesi tra i linguaggi dell’arte per assolvere a un incessante desiderio di bellezza.
Un vuoto che non ha luogo è la mostra di Diego Cibelli inaugurata il 16 novembre alla galleria Alfonso Artiaco di Napoli. Rimarrà allestita fino all’11 gennaio. È la storia di una serie di incontri. Il primo è stato quello di un ragazzo che, ancora studente, si è appassionato alla porcellana, scegliendo un materiale diametralmente opposto a quelli ricorrenti dei poveristi, che nel primo decennio del Duemila dominavano gli ambienti artistici italiani e la forma mentis del tempo. Il secondo incontro è quello tra un giovane Cibelli e un gallerista con una solida fama e una rilevanza internazionale. Il loro sodalizio ha avuto espressione concreta nel 2022, con l’esposizione Festa e Catastrofe. In quell’occasione l’artista aveva affiancato e coordinato un team di maestranze che variavano dalla foggiatura alla formatura di più di trenta stampi in gesso.
Adesso, un vecchio – nuovo luogo da riempire e la porcellana si (ri)prende la scena. “La porcellana è un materiale carico di archivi. Mi riporta alla storia dell’arte e alle sue immagini, che hanno stimolato la mia curiosità fin dall’infanzia. (…) La porcellana è quasi umana, porta con sé un’abbondanza di forme fusionali la cui generosità e profusione sono senza precedenti”, racconta l’artista napoletano, classe 1987.
A Napoli, la chiusura della fabbrica reale di Capodimonte ebbe l’effetto di diffondere i laboratori di porcellana in tutto il territorio cittadino e la grande sfida fu quella di differenziarsi dalla prima manifattura (quella di Capodimonte) e di trasporre nell’attualità il gusto per l’antico che la città vantava. A Napoli ci si concentrò, infatti, sul biscuit, una porcellana tenera o dura, cotta due volte, ma bianca perché priva di smalto. È proprio questa varietà che un giovane Cibelli scelse come proprio linguaggio identificativo ed è ciò che ha incuriosito e affascinato Alfonso Artiaco, tanto da introdurlo nel suo salotto dell’arte contemporanea.
Ma Diego Cibelli si racconta attraverso diversi linguaggi. Utilizza il video, le installazioni, la pittura, il disegno, le incisioni, le carte da parati. Non c’è scissione ma solo sintesi. Tutto è allo stesso livello e vengono vissuti con la stessa intensità nei processi di ispirazione, persuasione e di attrazione. Ogni opera comunica con le altre come ogni animale dialoga intimamente con il suo vicino.
Come spiega lo storico dell’arte francese Sylvain Bellenger nel suo appassionante testo che accompagna la mostra, le prime due sale Come l’aria nel cielo e Come il mare nel mare sono piene di vita, di movimento e di abbondanza. Quasi come fossero l’introduzione a un’esplosione che avverrà successivamente con la terza sala, Carillon. “È una sorta di allegro Big Bang di sagome che cadono dal soffitto e proiettano le loro ombre sulle pareti”, racconta Bellenger. Gli animali di Cibelli sono esseri parlanti, pieni di fragilità e aspirazioni, che riportano alle figure fiabesche di Hans Christian Andersen e al bestiario medievale. Il mito continua.