Lo scorso 30 ottobre, abbiamo avuto l’occasione di partecipare alla ReA! Art Fair alla Fabbrica del Vapore di Milano. In questa fiera dal sapore moderno e vibrante, abbiamo incontrato molti giovani artisti e potuto ammirare le loro opere. È stata letteralmente una ventata di novità e passione – per l’Arte, le nuove idee, i progetti creativi e tanto altro.
Dal digitale alla scultura – i nuovi artisti esplorano e creano: il risultato per lo spettatore è davvero coinvolgente. Abbiamo deciso di intervistare alcuni di questi talentuosi artisti per conoscerli meglio, per avere il loro punto di vista ed essere coinvolti nelle loro storie e percorsi professionali. Oggi vi invitiamo a conoscere Ernesto Fava, che è riuscito a coniugare la sua professione di architetto con quella di artista. Con le sue serie “Oniria” e “Digital Humanity” ci racconta i suoi mondi metafisici, mondi lontani ma spaventosamente vicini. Per Ernesto Fava, fare arte significa “intraprendere una profonda ricerca individuale, una rielaborazione dei meccanismi della mente, delle emozioni”.
L’Intervista a Ernesto Fava
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Cosa ti ha spinto ad intraprendere il tuo percorso di artista?
Il disegno per me ha una duplice finalità: è un gesto di istinto, più irrazionale, quasi un bisogno fisico, una valvola di sfogo come può esserlo una corsa all’ aperto dopo una giornata d’ufficio. E’ un momento di analisi, indagine, di approfondimento, in cui rielaboro pensieri, idee, concetti, su di me, sugli altri, sul mondo.
Il mio percorso formativo da architetto dialoga con questa passione, e sicuramente la comunicazione tra architettura e disegno ha supportato la mia decisione di intraprendere un percorso artistico individuale, anche se credo che sarebbe nato comunque, a prescindere dalla mia formazione. E’ una vocazione troppo forte e credo che semplicemente, ad un certo punto della mia vita, io abbia sentito la necessità di mostrarla agli altri.
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Cos’è per te fare Arte oggi?
Ribadisco il dualismo. Per me “Fare Arte” significa intraprendere una profonda ricerca individuale, una rielaborazione dei meccanismi della mente, delle emozioni, nella serie Oniria personifico tutto questo e creo un universo parallelo che di fatto rappresenta la nostra psiche, con particolare enfasi verso lo “Spirito Creativo Libero”, senza confini né di spazio né di tempo. Perché la creatività è questo, è la capacità di evadere in mondi che non esistono fisicamente ma che sono riprodotti dalla nostra mente, è uno strumento potente, un enorme supporto nei momenti di solitudine. Dicono che le persone creative patiscano meno lo stare soli, e credo che in parte sia vero.
Ma Fare Arte è anche rielaborare la nostra visione del mondo. Digital Humanity è una serie distopica di visioni urbane deliranti in cui esprimo tanti timori della nostra società: l’alienazione, l’individualismo estremo, il consumismo frenetico, la difficoltà di tessere relazioni umane stabili e durature.
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L’arte è ricerca e sperimentazione?
Totalmente. E’ ricerca perché rappresenta, più o meno consciamente, un potente strumento di rielaborazione di noi stessi e di ciò che ci circonda. Si può scegliere di trasformare una particolare indagine sociale, politica, economica, psicologica in Opera d’Arte che meglio la sintetizzi così come un disegno nato dal gesto più primitivo può celare un’analisi profonda che ci si rivela nel frattempo. Allo stesso modo è sperimentazione perché la libertà di questa rappresentazione è totale.
La parte più bella ed ostica dell’ Arte è che, rispetto per esempio all’ Architettura, i vincoli tecnici sono pochissimi e le possibilità di produzione quasi infinite. E’ fondamentale, in un percorso artistico completo, lavorare in parallelo sul significato di ciò che l’opera vuole raccontare e sulla tecnica stessa. Entrambi gli elementi mutano e si evolgono accompagnando la crescita dell’artista. Io stesso mi sono reso conto, sviluppando i lavori di Digital Humanity, che la tecnica del Lightbox fosse estremamente efficace nel rappresentare distopie urbane stracolme di insegne luminose e pubblicità virtuali. Tutto sembra più vero se l’ Opera stessa è illuminata come potrebbe esserlo il mondo che viene rappresentato al suo interno.
- Quali sono i materiali che utilizzi per creare le tue opere? E quali vorresti sperimentare domani?
Anche in questo caso devo ribadire un duplice percorso. Per quanto riguarda le opere figurative di serie come Oniria, sono partito da una rappresentazione digitale per poi arrivare alle tecniche più classiche, come l’acquerello su cartoncino, l’acrilico su tela, l’utilizzo semplice della matita, della penna, o soluzioni miste che combinassero tutti questi elementi. Sinceramente, per quanto il disegno digitale mi appassioni, sui lavori più “individuali” penso che farò molta fatica a tornare indietro, a disegnare solo con tavola grafica. L’impatto di un pennello o di una matita sulla carta, o sulla tela, sono potentissimi se usati a dovere e non voglio abbandonarli. Probabilmente il disegno digitale figurativo potrà essere un supporto ma non sarà più uno strumento che utilizzerò autonomamente per questa parte del mio percorso artistico. Ovviamente nel tempo sperimenterò altre soluzioni ma sicuramente questi elementi non scompariranno.
Per quanto riguarda le opere più, passatemi il termine, Architettoniche, il processo è quasi inverso. Ho iniziato immaginandole su fogli di carta fino ad arrivare alle modellazioni 3D. I supporti si sono evoluti col tempo, attualmente stampo immagini su plexiglass, alluminio, e adotto soluzioni con e senza retroilluminazione. Un passaggio imminente che sento è la necessità di animare il tutto. Vedo i lavori di Digital Humanity e penso, sono troppo statici, paralizzati da tutti i vincoli che impone l’immagine. Credo che molto presto testerò soluzioni animate, proiettate, tecnologicamente più complesse e, aggiungerei, maggiormente coerenti con lo stesso tema trattato (un po’ di autocritica).
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Come hai vissuto il lockdown?
Il primo lockdown è stato percepito in modo molto leggero. Condividevamo in tre la casa di Torino e l’abbiamo presa un po’ con filosofia, come se fosse stata una vacanza di gruppo (anche se in realtà stavamo lavorando tutti). La cosa che ho apprezzato tanto è stato l’avere un po’ più di tempo per disegnare, infatti nella prima quarantena ho prodotto tantissimo, ho riempito la camera di fogli, tele, cartoncini. Quello spazio stava implodendo nella mia Arte. Tuttavia, dopo le prime settimane, ho sentito la mancanza di quel contatto con l’esterno che ho sempre dato per scontato ma che è fondamentale per ispirare la propria creatività. Mi mancava osservare il mondo e rielaborarne le mie analisi con l’ Arte. Penso sia per questa ragione che durante la prima quarantena abbia sviluppato più tematiche introspettive, focalizzandomi molto sul disegno figurativo.
Questa seconda fase di chiusure la affronto con più “preparazione”, ma allo stesso tempo con maggiore stanchezza. Anche se penso che non ci siano al momento soluzioni alternative e ovviamente mi adeguo a tutti i comportamenti che dobbiamo avere nel rispetto delle regole, sinceramente, non ne posso più. Anche perché la vita lavorativa continua in modo forsennato, e questo mi impedisce, per ragioni di sicurezza, di vedere tante persone a me care, mentre le relazioni sociali sono ridotte al minimo. Penso che questo sia un sentore collettivo, e che tanti stiano percependo questa fatica. Sicuramente questa fase avrà un’ influenza enorme sulla mia Arte, o forse la sta già avendo, ma, per quanto mi riguarda, la sintesi di tutto questo momento necessità di ancora un po’ di tempo di elaborazione creativa.
Sicuramente nel percorso di Digital Humanity sono stato costretto da subito a rivalutare alcune visioni totalmente distopiche della tecnologia che ci circonda. Se è vero che un certo uso della stessa mi spaventa, è altrettanto indiscutibile quanto questa ci abbia aiutato in un momento in cui la relazione umana era limitata. In opere come Nomadi e Sanctuarium questo tema emerge in modo abbastanza limpido. La città non è più un solo, delirante flusso di luci ma un viaggiatore smarrito che cerca un riferimento, una meta, un Santuario.
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Quali sono i tuoi progetti futuri?
Voglio che la mia professione di Architetto e Artista dialoghino il più possibile. Voglio progettare spazi fisici dove poter inserire i miei mondi metafisici, dove le opere abbiano un loro collocamento ragionato, voluto, fatto ad hoc. Gli strumenti a nostra disposizione oggi lasciano spesso pensare (erroneamente) che l’architetto non debba più essere necessariamente creativo, che non sia più fondamentale la capacità artistica, la competenza del disegno. Voglio dimostrare che tutto questo è falso, concepire uno spazio vuol dire vederlo, saperlo rappresentare, e la storia ci insegna che i più grandi architetti erano anche disegnatori, pittori, scultori, insomma, artisti nel senso più ampio del termine.
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Quali sono le tue riflessioni sul mercato dell’arte emergente oggi in Italia?
Domanda difficilissima. L’Arte ha subito un cambiamento radicale nell’ultimo secolo. Il dibattito è sempre concentrato su cosa sia Arte e cosa no, e personalmente questo mi confonde, soprattutto quando la contestualizzo nell’ ottica di commercializzazione dell’Opera. Io sono del parere (totalmente personale) che in questa confusione sia doveroso cercare di produrre Arte che abbia alle spalle del lavoro vero, della tecnica, della qualità, e che questi elementi vengano catalizzati da un messaggio forte e chiaro, comprensibile. Secondo me l’Opera completa e vendibile deve suggestionare ma allo stesso tempo trasmettere l’impegno e la capacità che sono state necessarie per realizzarla. L’uso del digitale, inoltre, ha reso ancora più complessa questa analisi. L’arte digitale semplifica alcune tecniche ma allo stesso tempo apre nuove porte alla sperimentazione, per cui è doveroso per noi spingerci fin dove lo strumento nuovo ce lo consente, dimostrare anche in questo caso che c’è del lavoro Vero dietro alla nostra produzione. Se questo elemento non è limpido diventa ancora più caotica la commercializzazione di un Opera d’Arte.
L’Italia è un paese dove si produce tantissima Arte, ma questa confusione, almeno per quanto mi riguarda, è ancora molto forte. L’artista è stimolato da una rete enorme ma si fatica a trovare un proprio posto o un percorso chiaro di crescita. Mi interfaccio a questo mondo da poco tempo e sono entrato in contatto con tantissimi curatori, artisti e galleristi di grande entusiasmo e talento e mi rendo conto che il motore pulsante c’è, forse è più difficile spingerlo nella direzione giusta.
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Quanto influisce il digitale nella tua creazione artistica o nella tua comunicazione come Artista?
Enormemente. Faccio dell’esplosione del digitale uno dei miei temi principali di ricerca. Digital Humanity si aggancia alle utopie moderniste o futuriste e le collega ai più distopici scenari cyberpunk. Le mie visioni urbane sono delle estremizzazioni degli enormi errori dell’architettura socialista del passato e del timore di come la tecnologia possa influenzare il nostro futuro. Parole seducenti come smart, delivery, selfie, IG, raccontano un mondo che ci ha spinti all’apice del capitalismo facendoci diventare vetrine di noi stessi. Fenomeni “social-economici” come Chiara Ferragni, per quanto interessanti e sicuramente degni di analisi, ci mostrano un mondo in cui la persona stessa incarna la pubblicità, e questo è pericoloso, fa paura. Se prima temevamo una società di consumo ossessivo del prodotto, come potremmo affrontarne una in cui siamo noi stessi il prodotto ed il consumatore?
Per quanto riguarda la comunicazione, ovviamente anche io sfrutto tutto il potenziale digitale a nostra disposizione. E’ comico perché gli stessi strumenti che temo diventano quelli che mi supportano nella visibilità. Si è sicuramente generato un inevitabile rapporto di amore-odio nei confronti dei social network, e mi rendo conto che gestire la promozione attraverso quei canali è un lavoro a tempo pieno che dovro il più presto possibile delegare a professionisti terzi. E’ comunque un mondo che mi incuriosisce, con cui è stato stimolante interfacciarsi di persona, anche per trovare nuovi spunti per la mia analisi/produzione artistica.
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Ci racconti un’opera a cui sei particolarmente legato?
Della serie Oniria, sicuramente la Protettrice. Nella descrizione dell’ Opera parlavo di “Muse radiose, che gelosamente custodiscono il valore artistico delle creazioni della mente”. Penso di aver consciamente rappresentato una figura femminile sensuale, che trasmetta anche senso di conforto, di intelligenza, di elasticità ma fermezza. Credo che la Protettrice rappresenti il mio amore per l’arte, e lo personifichi attraverso l’immagine di una donna provocante ma elegante. E’ radiosa perché di fatto lei è la creatività, e per me ogni momento creativo è una forma di galvanizzazione, in cui mi emoziono e recupero la serenità perduta. Il momento di produzione artistica, creativa, è l’unico in cui riesco a staccare veramente la testa da qualsiasi pensiero, e mi piace averlo personificato in questa donna bella e risoluta, capace di attrarre contemporaneamente con il corpo e con la mente. La Protettrice è la Custode di Oniria, la Custode della mia Creatività.
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Quanto – e come – i tuoi studi di architettura e il tuo lavoro di architetto interagiscono con la tua arte?
Rispondo con enorme piacere a questa domanda. Perché la verità è che la mia scelta di fare l’architetto è stata un salto nel vuoto, non avevo idea di quanto avrei potuto apprezzare questa ramificazione più fisica, materiale, della creatività, eppure mi ci sono appassionato come mai avrei creduto. Come se non bastasse, l’Architettura mi ha dato spunti culturali e strumenti che ho messo totalmente a servizio dell’arte. Se non avessi studiato come utilizzare questi strumenti in Università oggi non avrei mai sperimentato certe tecniche. Sicuramente cliccare su Autocad non trasmette in me la stessa emozione di un segno a matita su un foglio, ma alla fatidica domanda che tanti mi fanno e che io ho paura di farmi, ovvero “A un certo punto abbandonerai l’architettura per l’Arte o viceversa?” rispondo che ancora non lo so, e che anche se sarebbe sicuramente più traumatico (e totalmente impossibile) abbandonare l’arte ad oggi sentirei un vuoto enorme nell’interrompere il mio lavoro di architetto. Credo che le due cose funzionino bene perché combinate. L’Architettura rappresenta il lato di me più pragmatico, più bisognoso di regole e ordine, mentre l’Arte arriva di conseguenza come una mia necessità di evasione verso mondi lontani, con regole diverse, create da me, e come un bisogno di analisi interiore profonda, brutale. Quando mi analizzo con l’Arte non c’è scampo, non posso mentire a me stesso, la penna tira fuori quello che sei davvero e non lascia scampo a tante menzogne o autoconvincimenti.
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Nelle tue opere – tra le tue muse (serie Oniria) e Digital Humanity – vediamo una ricerca di un’identità. Ci spieghi il senso della tua ricerca d’individualità/identità ?
Mi riallaccio ancora al dualismo di cui sopra. Oniria e Digital Humanity raccontano mondi miei, mondi metafisici, mondi lontani ma spaventosamente vicini: uno è dentro alla nostra mente mentre le città di Digital Humanity mostrano la possibilità di come sarà tutto ciò che sta fuori. Sono inevitabilmente universi collegati, ma al momento viaggiano in direzioni opposte. Se Oniria rappresenta una scrupolosa e serena ricerca all’interno della mente, Digital Humanity parte da un disagio universale per arrivare ad un viaggio incerto (che si esprime per esempio nell’ Opera Nomadi) verso nuovi orizzonti, nuovi riferimenti, nuovi valori (in Sanctuarium le città si avvicinano alla madonna nera e chiedono una società che sia più profonda ed equa nel definire concetti come la bellezza o la diversità). Ma il punto di giunzione esiste, perché Oniria valuta in modo più individuale emozioni che si riperquotono nel mondo, nella società, nelle stesse città digitali.
Credo che entrambe le collezioni di Opere rappresentino un mio tentativo di analizzare, elaborare e affrontare tutto ciò che fa parte di me e della mia visione del mondo. Credo che attraverso la rappresentazione di questi universi io riesca a sentirmi più vivo, più scoperto, più capace di comunicare. Per rispondere in modo più diretto alla domanda, credo che siano il modo in cui riesco ad esprimere la costante ricerca di quello che sono, di quello che è il mondo che mi circonda e, soprattutto, di quale sia il mio posto all’interno di esso. Ernesto Fava.
Biografia
Ernesto Fava è un giovane architetto da sempre appassionato al disegno in ogni sua forma. Il mio percorso inizia al Politecnico di Torino, facoltà di Architettura, attraversa la Francia, per un periodo di sei mesi di Erasmus, e arriva fino a Mumbai, dove concludo la tesi di specialistica relativa alle differenti caratteristiche del design nei contesti di insediamento informale, in contatto con comunità emarginate e minacciate da interessi economici e pressione politica. In seguito lavoro come progettista di edifici con tecnologie a basso consumo energetico, ed inizio il mio percorso artistico con Paratissima Torino 2018, mostra con tema principale la crescita dell’adolescente e le sue contraddizioni. Nel 2019 divento libero professionista iscritto all’Ordine degli Architetti di Torino, espongo presso Cascina Costanza, agriturismo situato nelle meravigliose colline dell’Oltrepò Pavese, nella località di Salice Terme, e racconto di Oniria, un mondo metafisico, spazio libero di creatività che indaga le sfaccettature della mente umana. A Milano, nella fabbrica del Vapore, in occasione di Paratissima 2019, analizzo il tema della città distopica, digitale, sintesi degli errori dell’edilizia operaia e delle criticità di un mondo sempre più virtuale. In occasione del Festival della Tecnologia di Torino, vengo selezionato insieme a 50 artisti per esporre all’interno della Sede Centrale del Politecnico nella mostra “Welcome to the Machine”, a cura di Francesca Canfora. Partecipo in parallelo a Paratissima 15, dove vengo selezionato insieme ad altri 11 artisti all’interno del percorso N.I.C.E., curato da Laura Pieri e Paolo Lolicata, ed espongo nella sezione intitolata “Human Touch”. I temi trattati sono: la perdità di identità architettonica della città del futuro, la supremazia delle tecnologie di Data Analysis, la super produzione industriale, il controllo dell’individuo, la digitalizzazione delle relazioni. Nel 2020 la mostra “Human Touch” si sposta in Sicilia, nelle magnifiche location del Castello di Milazzo ed il Faro di Salina. Parallelamente espongo presso Paratissima Art Station 2020 e vengo selezionato tra i 100 artisti della mostra REA!Art Fair svoltasi presso La Fabbrica del Vapore di Milano. Attualmente collaboro con la galleria d’ arte contemporanea Ossimoro, situata nel quartiere quadrilatero di Torino, espongo presso lo Spazio Anna Breda, nel centro di Padova, e sono stato selezionato per le mostre OLTRE ed EXPO 2021 presso la galleria Wikiarte di Bologna. In parallelo alla professione di Architetto e al lavoro di Artista, faccio da consulente grafico pubblicitario per alcune aziende private nella zona dell’ Oltrepo’ Pavese. In un percorso di costante crescita e passione, lavoro con la ferma convinzione che architettura ed arte siano ancora due mondi in grado di comunicare e di stimolarsi reciprocamente. Ernesto Fava. Ernesto Fava. Ernesto FavErnesto Fava Ernesto Ernesto Fava