Parlando di produzione di opere d’arte, oggi assistiamo spesso all’incontro tra analogico e digitale, tradizione e innovazione e ci ritroviamo in uno spazio artistico in cui gli artisti creano nuove ed affascinanti sinergie. Le tradizionali – e mai superate – tecniche tradizionali spesso incontrano (e ispirano) l’impiego di nuove tecnologie d’avanguardia quali l’Intelligenza Artificiale. Il risultato sono opere che ci accompagnano alla scoperta di nuovi scenari artistici. Ed è qui che incontriamo Giuseppe Ragazzini, pittore, scenografo, visual artist e AI Artist, un artista estremamente poliedrico (e indubbiamente un grande sperimentatore) che con il suo lavoro ci accompagna in una dimensione artistica sempre in evoluzione, come i protagonisti delle sue opere – che mutano grazie anche all’innovazione tecnologica senza perdere la loro connessione con la loro storia e spesso con la nostra cultura – dal teatro alla storia dell’arte. In occasione di PerformIA, il festival dedicato alle espressioni di intelligenza artificiale (tenutosi lo scorso 23 e 24 settembre 2022 a Firenze), ho avuto l’opportunità di approfondire il lavoro di alcuni degli artisti protagonisti di questo evento. Ho incontrato Giuseppe Ragazzini e abbiamo parlato di filosofia, valenza morale della creazione, casualità e ovviamente tecnologia. Qui di seguito l’intervista di approfondimento che vi invito a leggere. Buona lettura.
RP: Da pittore tradizionale ad artista che con successo sperimenta e usa l’Intelligenza Artificiale. Il passo dal dipinto fisico ad opere con IA però non è mai breve ma il tuo interesse in questa direzione era già vivo quando eri uno studente vista la tua laurea in filosofia con una tesi su Hubert Dreyfus (autore nel 1972 del libro “What Computers Can’t do”). Qual’è oggi il tuo rapporto con la tecnologia e l’IA applicata all’arte?
GR: Credo che il fatto di disporre di così tanta tecnologia e dei tanti linguaggi che questa ci offre possa essere una bellissima occasione per gli artisti. Gli artisti contemporanei vivono in un periodo unico da questo punto di vista, in cui dispongono di incredibili tecnologie e possono realizzare opere prima impensabili o che avrebbero richiesto un grandissimo dispendio economico. Penso nel mio caso all’animazione pittorica e collage: con un computer posso realizzare quello che solo vent’anni fa richiedeva mezzi tecnici di cui solo pochi potevano disporre. Il punto è che dobbiamo essere in grado di “dominare” questa tecnologia, di metterla al servizio del nostro linguaggio e delle nostre idee (umane!). Con la sola tecnologia, senza ‘controllo’, non possiamo che andare verso una generale omologazione e disumanizzazione dell’arte, che finirà per non ‘rappresentarci’ più. Detto questo sono sicuro che anche alcuni grandi Maestri del passato sarebbero stati utilizzatori entusiasti della tecnologia e l’avrebbero utilizzata in maniera incredibile avendo a disposizione i nostri mezzi.
RP: Le tue “metamorfosi pittoriche” sono frutto di una tecnica attraverso la quale crei opere (e video) che raccontano molto di te: la tua connessione con la tecnologia, con il teatro, con la storia dell’arte. Ci racconti una tua opera ?
GR: Non riesco a spiegare ‘scientificamente’ i vari elementi che caratterizzano il mio lavoro o una mia opera. Tu stessa hai già risposto in parte alla domanda: nel mio lavoro convivono diversi elementi: nella maggiorate dei lavori il tema dell’identità probabilmente è centrale e forse lo devo proprio ai miei studi di Filosofia. L’identità non è un’entità data per sempre, fissa ed immutabile, bensì una realtà frammentata (come i miei collages) e in divenire, che si evolve continuamente (come le mie metamorfosi appunto). E si evolve grazie all’altro.
Rimbaud diceva che “l’Io è un altro”: la nostra identità viene definita e costruita soprattutto nell’ambito della relazione con l’altro, con il diverso. Senza l’altro non saremmo niente, non saremmo ‘nessuno’. Quando lavoro lo faccio in modo assolutamente intuitivo, improvviso continuamente e non ho mai in mente una ‘finalità’, almeno concettuale, ma forse il mio lavoro prende in esame proprio questo: l’importanza dell’alterità, e dell’incontro (casuale) delle parti nelle sue infinite forme.
Poi c’è la Tecnologia, come scelta di un medium che spesso mi permette di raccontare e tradurre in maniera “innovativa” il mio immaginario, ed infine l’Arte, che interpreto come la padronanza di un segno, di uno stile, attraverso l’applicazione di un personale e misterioso procedimento che ognuno si costruisce e rifinisce nel tempo (a volte rimanendo prigioniero di un mero virtuosismo), e che porta a risultati formali imprevedibili ma a volte potentissimi. Il risultato finale, è qualcosa che appare all’artista come “necessario”, nel senso che sembra avere, ai suoi occhi (e quando va bene agli occhi degli altri), una propria dirompente “necessità di esistere”.
RP: Hai realizzato un TEDxFirenze dal titolo “La nostra imperfezione ci salverà” portando splendide riflessioni. “Il caso” nell’arte ha prodotto opere straordinarie – a volte è proprio nel caso che l’artista trova la sua ispirazione, “l’Eureka”: la scintilla che fa partire un processo creativo. E allora ti chiedo: che cos’è per te la creatività?
GR: La casualità è un elemento fondamentale nel mio lavoro. La maggior parte dei miei lavori sono frutto di un lungo processo di metamorfosi in cui le forme si trasformano incessantemente, alla ricerca di un risultato formale più “autentico” e più “necessario” di quello frutto del tradizionale processo illustrativo. Durante gli anni ho cominciato anche ad utilizzare processi digitali per immortalare questo processo.
Nel mio Tedx parlavo appunto di come il caso e l’imperfezione siano elementi fondamentali nel processo artistico (ma anche nella vita e nella nostra stessa evoluzione). E questi elementi sono quelli che ancora ci distinguono dalle varie forme di Intelligenza Artificiale, a loro modo perfette, efficienti ed impeccabili. Chiudevo il mio discorso dicendo che “c’è ancora una cosa che le macchine non possono ancora possedere in maniera autentica, ma solo simulare, ed è il nostro essere “meravigliosamente imperfetti”.
Tuttavia tendiamo ad imporre alla realtà dei modelli ideali che escludano ogni forma di disordine e di imperfezione. Basti pensare ai modelli di bellezza, di successo e di perfezione, appunto, imposti dalla nostra società.
La perfezione è un’idea fredda, è un concetto statico che per sua definizione non ha bisogno di cambiamenti: se fossimo stati perfetti non avremmo nemmeno avuto bisogno di evolverci.
I processi matematici o appunto gli algoritmi delle macchine sono a loro modo perfetti, ma (almeno per il momento) impediscono alle macchine di sperimentare l’autentica bellezza, di avere un’intuizione o un’idea bypassando le regole della pura razionalità.
–> ndr: il link per vedere il TEDxFirenze di Giuseppe Ragazzini: https://www.youtube.com/watch?v=FDZNI7S9K4U
RP: Hai realizzato in tempi non sospetti, nel 2016, un’applicazione di successo che permette di realizzare una creazione artistica “mixando” elementi di dipinti famosi. Ce ne puoi parlare?
GR: La mia app Mixerpiece (nata nel 2016 e commercializzata nel 2018) è una “creatura” di cui vado molto fiero, che ha vinto numerosi premi internazionali fra cui il Parents’ Choice Golden Award e la menzione d’onore ai Webby Award 2019, che sono l’Oscar del digitale! E’ un’app creativa e didattica per bambini ma anche per adulti creativi ed amanti dell’arte. Nella sua semplicità è anche un potentissimo strumento creativo per artisti e illustratori. Si tratta di una sorta di lavagna magnetica digitale con una serie di elementi, raccolti in categorie, che si possono combinare per creare nuovi collage con possibilità creative infinite e molto sorprendenti. La particolarità è che nella versione base tutti questi elementi sono estrapolati da famosi capolavori dell’arte di tutti i secoli (comunque artisti nel pubblico dominio, dal ‘200 al ‘900).
Se si fa long tap su un elemento si apre una scheda che mostra l’opera da cui è stato estrapolato il pezzo e alcuni approfondimenti. Inoltre, e questa è la funzione “creativamente” più entusiasmante, se dopo aver fatto un collage si scuote il device, i pezzi dell’opera cambiano randomicamente creando nuovi collage e combinazioni di pezzi a partire dallo schema della prima illustrazione creata. Un fabbricatore infinito di collage, realizzabile con qualsiasi tipo di campionario (che a partire dall’ultimo upgrade può essere caricato dall’utente e sistematizzato in nuove categorie tematiche).
RP: Riprendendo Dreyfus: oggi i computer non possono realizzare opere d’arte se non con l’ausilio dell’uomo. C’è un artista che “lavora dietro (o con) la macchina” per creare opere d’arte e non esiste un’IA senziente che decide da sola di creare qualcosa di artistico. Ma sempre più, algoritmi e reti neurali ci portano verso una zona inesplorata. Pensi che gli artisti in questo senso stiano mostrando al grande pubblico alcune peculiarità dell’innovazione tecnologica che stiamo vivendo? Quali nuovi scenari artistici dobbiamo aspettarci?
GR: All’inizio del mio Tedx nel 2020 mostravo il famoso ritratto del fantomatico “Edmond de Belamy”, creato da un’AI nutrita da un campionario di circa 15.000 ritratti (tra il XIV e il XX secolo). Era uno dei primi tentativi di un sistema Generativo (GAN) di produrre un’opera d’arte, a suo modo impressionante ma ancora leggermente patetico. Di contro mostravo una serie di collages creati dalla mia app con il suo semplice algoritmo combinatorio, che mi sembravano enormemente più belli. Questo anche perché il collage fa uso di elementi “discreti”, separati l’uno dall’altro (e anche precostituiti), mentre la difficoltà di imitare la pittura sta proprio nel fatto che sia “continua” e non costituita da singole parti. A distanza di soli due anni sono letteralmente sconvolto (ma per certi versi anche entusiasta) dai progressi incredibili dei sistemi generativi, e non avrei mai pensato che in così poco tempo saremmo giunti a questo punto.
Hai assolutamente ragione quando dici che c’è sempre l’uomo dietro a questi sistemi di IA, basti pensare ai data set sconfinati (ben più di 15000 opere come per “Edmond”) con cui vengono nutrite. L’archivio di partenza è costituito da opere umane ma la grande differenza che vedo ora, dopo aver sperimentato relativamente a lungo con queste tecnologie (circa due anni!) è che oggi un’IA opportunamente nutrita è in grado di produrre qualcosa di bello, è in grado di produrre “bellezza”! Certo non ne sarà (ancora) consapevole ma rimane il fatto che il risultato a volte ha un valore estetico, è una forma nuova e complessa, indistinguibile da quella prodotta da un’artista.
Io non ho mai creduto (anche se comincio a vacillare) nell’ipotesi dell’Intelligenza Artificiale Forte, cioè all’idea che le intelligenze artificiali avranno una coscienza, e ricordo che c’era un concetto in particolare che supportava il mio approccio anti riduzionista e aiutava a spiegare l’idea di coscienza mettendo in relazione materia e mente: il concetto di emergenza. In generale veniva utilizzato per confutare l’ipotesi riduzionista che la coscienza potesse essere ridotta a qualcosa di esclusivamente fisico, e semplificando molto significa che ci sono una serie di elementi, come ad esempio le componenti fisiche del nostro cervello, i neuroni, le sinapsi, ecc. che nel loro incontro e nel loro scambio danno luogo ad una nuova “dimensione” ontologica, come la coscienza, che però a sua volta risulta irriducibile ai singoli elementi che la compongono. In questo senso la coscienza è appunto una proprietà “emergente”. Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, un insieme di individui può diventare un gruppo sociale, un’insieme di molecole può diventare una cellula. Se da un lato però questo concetto, che continua ad affascinarmi moltissimo, mi aiutava a sostenere questo approccio anti riduzionista, trovo che in parte sia applicabile anche ai nuovi sistemi di IA, e recentemente andando a spulciare nella mia tesi (2004) ho trovato questo paragrafo in cui si parla proprio di emergenza e IA:
“Anche in I.A. gli studi sulle reti neurali si prestano ad un confronto in questo senso: i sistemi di apprendimento, e in massima misura proprio le reti neurali, sono inizialmente oggetti per certi versi informi: il tecnico definisce la loro struttura formale (oggettiva) ma i “pesi” delle connessioni si vanno precisando durante l’apprendimento, in maniera indipendente dall’intenzionalità del progettista, ma dall’informazione fornita; alla fine (ammesso che vi sia una fine, ossia che il processo di apprendimento non duri per tutta la vita del sistema), essi assumono valori numerici del tutto imprevedibili e, d’altronde, privi di interesse per il tecnico che ha progettato la rete e che la usa. Anche nel caso delle reti neurali vi è dunque un livello di base (oggettivo-formalizzabile) e delle manifestazioni per così dire “emergenti” a cui lo stesso livello di base dà vita.”
Ecco, gli ultimi miei esperimenti di cui parlavo, in cui i nuovi sistemi generativi in un certo senso hanno prodotto “bellezza”, sono anch’essi frutto di una banca dati umana di singole opere, ma il risultato a cui danno luogo è qualcosa di nuovo, di unico, di irriducibile alla banca dati, qualcosa di “emergente” appunto. E’ proprio questo che mi fa pensare alla possibilità che nutrendo queste macchine sempre più potenti e veloci (pensiamo al computer quantistico) con data set davvero sconfinati potremmo assistere a qualcosa di nuovo, che le nostre attuali categorie mentali non ci permettono di concepire.
RP – Quale opera hai presentato a PerformIA?
GR: A PerformIA, ho presentato “La Macchina del Collage”, un algoritmo sviluppato grazie ai data scientist di Polaris Engeneering. E’ una sorta di IA, un generatore infinito di collages di volti sviluppati a partire dal viso di un utente, che fa uso di algoritmi di segmentazione, riconoscimento facciale e face parcing. A partire dalla propria foto, la macchina scompone il volto in strappi materici (conferendogli l’aspetto e la texture della carta) e ricombina questi elementi secondo parametri randomici mescolandoli anche a un campionario di maschere e di elementi fisici da me forniti con cui è stata nutrita. Il risultato è appunto un generatore infinito di ritratti collage (in stile Ragazzini!). Sono molto felice di questa collaborazione, trovo l’iniziativa di Polaris realmente “illuminata” e li ringrazio di questa occasione che mi ha permesso di ideare direttamente un’IA creativa.
RP: Quali i tuoi futuri progetti?
GR: Sto lavorando a una nuova app per bambini, un generatore infinito di fiabe illustrate. Questo è senza dubbio il progetto che al momento mi entusiasma maggiormente.
RP: domanda finale: cosa ne pensi delle applicazioni Text to Edit con IA?
GR: I migliori risultati che ho ottenuto usando algoritmi generativi li ho ottenuti utilizzando input di miei opere esistenti, ma è una strada che probabilmente ho preferito seguire per avere l’impressione di essere ancora l’autore dell’opera finale. I risultati delle app Text to Edit trovo che siano anche molto virtuosi, e a volte enormemente complessi. Penso anche a delle animazioni incredibile (zoom in infiniti) realizzati con Disco Diffusion. Il più delle volte tuttavia c’è qualcosa di disumano appunto, qualcosa di arbitrario. E’ un’estetica omologata e la maggior parte di questi lavori si riconoscono immediatamente. Si ritorna sempre al problema iniziale, il tentativo di dominare la tecnologia, che in questo caso risulta molto più complesso. Sono sicuro che ci sarà qualcuno che userà questa tecnologia in maniera originale e straordinaria, ma la maggior parte dei suoi prodotti non ha lontanamente il carattere dell’espressione artistica.
Probabilmente però il livello estetico di queste opere migliorerà sempre di più, e alla fine questo straordinario potenziale, essendo accessibile a tutti, potrebbe causare una totale saturazione (in termini di immagini) e dunque anche a un arresto di qualsiasi dialettica creativa. Ci pensate se chiunque potesse creare un capolavoro? Per di più senza godere del processo creativo e senza conoscere ed esperire ciò che vi è dietro. Io credo che il nostro meraviglioso antichissimo cervello per funzionare abbia bisogno dei limiti, della presenza di ostacoli, della fatica, dell’errore e della dialettica desiderio e appagamento. Pensate alla noia di una partita di calcio fra automi infallibili che fanno goal ad ogni tiro! Se torniamo alle pitture rupestri, antiche anche di 40.000 anni, siamo tutti d’accordo che quella è la prima forma d’arte dei nostri antenati. Ecco, io la amo totalmente e direi che non trovo alcuna differenza semantica con la grande arte che ci ha accompagnato nel tempo. Siamo anche d’accordo che seppure gli stili cambiano continuamente nel tempo, il fatto che un umano, con uno o più colori, riempia una superficie con varie forme per lasciare un segno o forse combattere l’idea della morte, resta identico per migliaia e migliaia di anni.
Ma proviamo a capire cosa è accaduto in tutto questo tempo e a complicare questa affermazione: pensa ad un moderno trimarano da gara, che vola letteralmente sollevato sull’acqua grazie a due ali laterali aerodinamiche chiamate “foils”, frutto della più avanzata tecnologia. E’ spinto semplicemente dalla forza del vento e supera facilmente i 100 Km orari ma non c’è l’ombra del motore; una volta era una semplice caravella o al massimo un veloce brigantino.
Proviamo ad applicare lo stesso salto tecnologico alle arti visive: parlo di ologrammi, di immagini digitali, di schermi pieghevoli o delle varie tecniche digitali che utilizzo anche io. Fino ad arrivare appunto all’IA. Ecco, quello che è accaduto è diverso dalla pittura rupestre, ma nelle forme più alte è ancora arte con la A maiuscola, ed è frutto di un’evoluzione straordinaria ma coerente. E’ un’arte che continua a raccontare e a testimoniare qualcosa di noi e del mondo in cui viviamo. Ci rappresenta. Credo che gran parte dell’arte contemporanea non ci rappresenti più degnamente: E’ puro arbitrio, provocazione fine a se stessa. Vorrei che l’arte, evolvendosi, continuasse in parte a seguire alcune delle “regole” su cui si è fondata: anche se farà uso di tecnologie sempre più evolute, non dovrebbe dimenticarsi delle sue origini, esattamente come il trimarano che vola sui foils è ancora a tutti gli effetti un’imbarcazione a vela sospinta dal vento!