Amanullah Mojadidi, curatore, artista concettuale e ricercatore afghano, ci parla del panorama creativo del paese a pochi mesi dalla presa di potere dei Talebani.
“Qatra Qatra Darya Mehsha” è un antico proverbio in lingua Dari che sottolinea come, agendo con pazienza, mattone dopo mattone, anche la situazione più disastrosa possa prendere una piega positiva. Insomma, un “la speranza è l’ultima a morire” in salsa farsi orientale. Analizzando però la situazione in cui versa la nazione afghana da cinque mesi a questa parte è difficile abbandonarsi a rosee congetture. Oltretutto le notizie di prima mano scarseggiano, giungendo a noi attraverso troppi passaggi e soprattutto molte interpolazioni da parte di media non autoctoni. Un po’ come sta accadendo per la situazione kazaka.
A quanto pare questo 2022 non è iniziato con i migliori auspici per un sacco di popolazioni mondiali: non fanno in tempo a spegnersi i riflettori su uno scenario che già si affaccia all’orizzonte una nuova crisi politico economica. E il sipario sarebbe meglio non calarlo, finito lo scoop di turno, su nessuna delle situazioni precedentemente menzionate e nemmeno su quelle che purtroppo si presenteranno in futuro. Di norma, quando l’interesse dell’opinione internazionale scema, la vita delle popolazioni locali peggiora in maniera sostanziale.
Per quanto riguarda il panorama afghano a destare ancora una volta l’attenzione ci ha pensato la Fondazione Imago Mundi, con l’esposizione, da poco terminata, intitolata proprio “Qatra Qatra/Drop by Drop”.Quattro donne, quattro artiste contemporanee locali che hanno fatto dell’emancipazione, della lotta alla discriminazione e della critica delle norme sociali e religiose la cifra della loro pratica artistica.
Il progetto è stato curato da Amanullah Mojadidi, una vecchia conoscenza della Luciano Benetton Collection. Infatti non è la prima volta che la realtà trevigiana affronta questo tema. Dal 2011 al 2014 proprio Mojadidi aveva gestito il “10X12 Project for Afghanistan”: una raccolta di opere di piccolo formato prodotte da ben 142 artisti locali. Ed è proprio grazie alla Fondazione Imago Mundi che ho avuto il piacere di intervistare il ricercato ed artista afghano. Nelle prossime righe sarà lui stesso a parlarci della recente mostra e del panorama creativo della nazione dei suoi padri.
Buona lettura.
Intervista a Amanullah Mojadidi
E.R. È stato il curatore della mostra alla Fondazione Imago Mundi “Qatra Qatra/Drop by Drop” che ha esposto quattro artiste (Kubra Khademi, Lida Abdul, Hangama Amiri, Rada Akbar) a Treviso. Perché la sua scelta è ricaduta proprio su di loro?
A.M. Tutte le artiste afghane creano opere che affrontano questioni di patriarcato, oppressione, occupazione, ruoli delle donne all’interno della società e/o memoria collettiva. Nello specifico le quattro presentate lavorano con una varietà di mezzi e tecniche differenti tra cui film, fotografia, disegni/dipinti e opere tessili che forniscono un quadro diversificato delle varie pratiche artistiche.
E.R. Aveva già collaborato con la Fondazione Imago Mundi tra il 2012 e il 2014 curando “10X12 Project for Afghanistan”: una panoramica sull’arte contemporanea afghana che ha coinvolto 142 artisti. Come è cambiata la scena artistica dell’Afghanistan da allora?
A.M. Quando ho curato la parte di collezione Imago Mundi dedicata all’Afghanistan si sostenevano moltissimo le iniziative di arte contemporanea locali, il che significava un’affermazione di molte pratiche creative differenti. La Facoltà di Belle Arti dell’Università di Kabul registrava un incremento del numero di studenti che desideravano studiare arte e gli artisti formavano addirittura collettivi dove potevano riunirsi per discutere e creare. Uno dei maggiori cambiamenti riscontrati dalla presa di potere dei Talebani la scorsa estate è stato la massiccia emigrazione di alcuni degli artisti più attivi nel paese, molti dei quali lavoravano come insegnanti o professioni similari. Con le restrizioni che ci si può aspettare applicherà il nuovo regime talebano, solo il tempo potrà dirci come la pratica creativa continuerà a svilupparsi.
E.R. Lo ha già accennato, ma visto che “Qatra Qatra/Drop by Drop” è un titolo fortemente simbolico, approfondiamo ancora un attimo il tema: secondo lei quale sarà il futuro della scena artistica vista la presa di potere dei Talebani?
A.M. Non posso prevederlo. Sarà ovviamente diverso da come è stato negli ultimi 20 anni, ma anche in questo periodo il progresso non è stato “naturale” poiché il modo in cui la “scena” artistica si è sviluppata è stato condizionato da un massiccio intervento straniero. Possiamo aspettarci di vedere meno opere d’arte che mostrano forme umane, scene di bazar e similari, ma forse questo spingerà semplicemente il lavoro verso una maggiore astrazione. Inoltre, come la storia ha dimostrato, i regimi oppressivi possono spesso portare a pratiche creative rivoluzionarie, anche se praticate solo clandestinamente. Quindi questo potrebbe accadere anche in Afghanistan. Ancora una volta sarà il tempo a svelare l’arcano.
E.R. Parlando appunto di intervento straniero, è sempre stato critico nei confronti della massiccia dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri. Ho interpretato correttamente il suo pensiero? Da cosa scaturisce questa presa di posizione?
A.M. Sì, penso che il problema principale inerente i massicci aiuti esteri in Afghanistan sia stato che si metteva sempre in primo piano l’avanzamento delle agende straniere nel paese anziché ciò che era davvero necessario al popolo afghano. I molti aiuti esteri, non solo in Afghanistan ma a livello globale, svolgono anche un ruolo non trascurabile nell’alimentare la corruzione nei paesi beneficiari.
E.R. Possiamo affermare che l’inizio dei problemi nazionali sia stata la guerra sovietico-afghana?
A.M. Questo è un argomento molto complicato e che non può essere completamente sviscerato in poche righe. L’Afghanistan ha avuto problemi nazionali sin dalla sua creazione come stato nazione all’inizio del 1900. Il progetto di creare un’identità nazionale non si è mai veramente radicato nel Paese e non lo è ancora oggi. Le persone si identificano più con le loro affiliazioni etniche e tribali piuttosto che sentirsi un’unica nazione. Ovviamente, gli ultimi 40 anni di guerra non hanno aiutato il Paese a rafforzare la propria identità nazionale.
E.R. Lei si può a pieno titolo definire “cittadino del mondo”: attualmente vive a Parigi, ha origini afghane, ma è nato a Jacksonville. Guardando alle vicende geopolitiche degli ultimi vent’anni, come ha vissuto questa doppia appartenenza?
A.M. Sono cresciuto provando in prima persona cosa significa il razzismo negli Stati Uniti e quindi non mi sono mai sentito completamente cittadino. Però, quando sono andato in Afghanistan, sono stato anche lì visto come uno straniero e quindi il mio senso di appartenenza era comunque limitato. Così, già da molti anni, ho imparato a stabilizzarmi nello spazio “intermedio” dell’identità, semplicemente a crearne una mia, che onori e rispetti tutto ciò che mi ha plasmato sia dagli Stati Uniti che dall’Afghanistan, ma che al contempo sia a se stante, a guisa di una differente specie di mutazione (uso la parola “mutazione” nel modo più positivo).
E.R. La meditazione e lo sciamanesimo sono estremamente importanti nella sua pratica artistica. Come si relazionano questi temi alla sua terra natale?
A.M. Sì, queste pratiche sono diventate prima parte di ciò che sono e poi hanno influenzato la creatività. La mia famiglia paterna arriva dall’Afghanistan ed era Sufi, così sono cresciuto circondato dalla meditazione. Sebbene ad una certa età mi sia “ribellato” alla religione, alla fine ho ritrovato la pratica spirituale attraverso lo sciamanesimo. La cosa interessante di un passato sufi e di un presente sciamanico è che prima che il sufismo fiorisse in Afghanistan, dopo la conquista islamica, lo sciamanesimo era diffuso in tutta l’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. Molte delle pratiche religiose che alla fine il Sufismo fece proprie furono originariamente praticate dagli sciamani nel Paese e in tutta la regione.
Amanullah Mojadidi, estratto biografico
Ricercatore di origine afghana, nato negli Stati Uniti, Amanullah Mojadidi è laureato in Antropologia culturale. La sua pratica creativa utilizza un approccio etnografico sperimentale che combina ricerca qualitativa, narrazione tradizionale, strategie narrative postmoderne e opere d’arte a tecnica mista (spesso installazioni site-specific) per affrontare temi come l’appartenenza, la politica dell’identità, il conflitto, la storia degli artefatti e la migrazione.
Le sue opere sono state esposte a livello internazionale in istituzioni come l’Imperial War Museum a Londra; durante manifestazioni quali l’Images Biennale di Roskilde, il 3rd Dhaka Art Summit, la 12th Havana Biennale, la 3rd Asia Triennial di Manchester, la 1st Kochi/Muziris Biennale e dOCUMENTA (13); in luoghi pubblici quali Times Square a New York. Attualmente vive a Parigi.